Alice Pomiato è una donna centrata e appassionata. Laureata in comunicazione e con un passato da social media strategist a Treviso, ha presto scelto una vita libera dalle imposizioni dettate dai ritmi del lavoro e della città, per dar voce a realtà ancora poco note, come crisi ambientale, coscienza etica e responsabile. Durante il suo lavoro sentiva che mancava qualcosa. Il sistema attuale, iperattivo e focalizzato sullo stipendio non apparteneva alla sua natura. Ha così lasciato la città e il suo lavoro sicuro partendo alla volta della Nuova Zelanda. La sua è stata una mossa coraggiosa ma, come lei stessa dice, dolorosa. Ha svolto un vero e proprio lavoro di decostruzione personale, dedicandosi ad occupazioni manuali e vivendo in sintonia con la natura.

Nasce così “ aliceful “, il cui scopo è trasmettere l’idea di quanto impatto abbiano le nostre scelte sul pianeta, creando slanci per cambiamenti concreti. Alice ha tanti progetti per le mani ed è sempre alla ricerca di un balance, tra il lavoro di formatrice e quello manuale. Struttura le sue formazioni in aziende e per  professionisti sulle cause ambientali e sociali, poichè non c’è un controllo attivo e costante da parte dello Stato che induca a seguire un percorso di rinnovamento. Mancano delle regole, specialmente nel campo della produzione, per una società come la nostra che non possiede una cultura del limite. Alice svolge anche degli interventi nelle scuole, per instillare concetti responsabili e risvegliare sensibilità in una generazione giovane che è ancora in tempo ad approcciarsi alla vita diversamente. L’idea di portare questi concetti in contesti educativi e istruttivi ci entusiasma, poiché rappresenta una speranza concreta per chi del futuro sarà protagonista.

Alice ha scelto un cambiamento di vita radicale, passando dalla città all’ascolto profondo e attivo, nel rispetto della natura.

Che sensazione hai provato la prima volta che sei uscita dalla tua “zona caotica di comfort”? Io la definirei zona di dis-comfort, perché quando nel 2018 ho lasciato la routine e il lavoro in agenzia a Treviso, volevo farlo da tempo ma non ne avevo il coraggio. Ricordo bene la sensazione di libertà all’acquisto del biglietto di sola andata. Ho viaggiato per tre anni tra Australia, Nuova Zelanda e Asia. Volevo iniziare una nuova vita in NZ ma la pandemia ha distrutto i miei piani e al mio rimpatrio mi sono chiesta: cosa vuoi fare? È stato inevitabile pensare che avrei voluto tornare a fare comunicazione, ma per delle cause utili a persone e pianeta. Non ritengo di vivere una vita ‘radicale’, anzi, forse più minimale.

È un percorso iniziato a casa, in famiglia, dove si è sempre stati attenti alla gestione dei soldi e si è quindi abituati a scelte più ecologiche e consapevoli: acquistare vestiti usati, avere l’orto, efficientare la casa e così via. Al mio ritorno in patria ho deciso di non acquistare più un’auto, nel frattempo ho maturato la volontà di essere vegana, ma semplicemente cerco di fare del mio meglio per essere più leggera e non accumulare cose che mi tolgono tempo, pensieri e risorse economiche, per dedicarmi al meglio a quel che per me conta e mi da soddisfazione.

Nei tuoi numerosi viaggi, hai trovato un luogo più orientato e pronto ad un approccio alla vita sostenibile e responsabile? Se si quale e perchè?
Sicuramente la Nuova Zelanda, non per niente è il paese dove immaginavo il mio futuro. Jacinda Ardener, la prima ministra, è la donna che più ammiro. Ho trovato un paese che riconosce i danni che il passato coloniale ha fatto, ma che lavora per mantenere e tramandare la lingua Maori, per includere, normalizzare e valorizzare le minoranze. Lì è difficile semmai non trovare un lavoro, e le tutele alle persone ci sono. Come qualsiasi paese deve lavorare su altri aspetti, ma vedo che non si tira indietro.

Se una grossa azienda volesse intraprendere un percorso etico e sostenibile, da dove dovrebbe cominciare il suo rinnovamento? Sicuramente dovrebbe cominciare a mettere in discussione il proprio business model. Credo che le aziende non siano ancora  consapevoli del fatto che le risorse da cui dipendono sono e saranno sempre più scarse. Nel caso di grandi aziende che si occupano di cibo, per esempio, avere un business model che ti richiede di coltivare con un modello intensivo e iper-produttivo, mi chiedo, sono consapevoli del fatto che stanno deteriorando il terreno e che farlo tornare in vita richiederà molti sforzi e tempo? No, forse semplicemente continuano a ricercare terre fertili e/o disboscano per coltivare, soprattutto nei paesi a sud del mondo. Il moderno colonialismo, poi, non permette ai paesi ‘colonizzati’ di sviluppare forme di economia più indipendenti, solide, resilienti e non dipendenti dai nostri insostenibili modelli di consumo. La rete globale è fitta e interconnessa, quando si mette mano a qualcosa si tocca inevitabilmente tutto il resto. Ora più che mai siamo consapevoli di come le nostre azioni non sono scollegate da tutto il resto.

Si possono riscontrare difficoltà a riguardo? Se si quali? Io preparo dei percorsi di formazione che servono a guidare le persone a comprendere il momento storico e affrontarlo con più lucidità e consapevolezza. Questo si ripercuote positivamente sulla loro vita personale e lavorativa. Oggi tutte le persone vogliono essere più sostenibili, ma all’interno delle aziende ci lavorano persone che non sanno cos’è la sostenibilità.

Che impatto ha in questo momento la Finanza etica nel nostro paese? Al momento in Italia possiamo fare affidamento su una sola banca etica, che si chiama proprio Banca Etica e nasce con uno statuto ben preciso e fonda tutto su trasparenza e reputazione. Lavora sull’economia reale e utilizza i soldi di chi la sceglie, per uno sviluppo ambientale e sociale sostenibile. Le altre banche lavorano molto sulla finanza speculativa e molto meno sull’economia reale. Queste  banche sono le stesse che finanziano l’industria dei combustibili fossili, degli armamenti, degli allevamenti intensivi ma non mancano mai di sponsorizzare qualsiasi iniziativa che sia legata ai temi della sostenibilità. Puro green marketing e greenwashing, perché loro stanno attivamente aiutando a perpetuare questo sistema insostenibile e attraverso queste azioni provano a ripulire la propria reputazione pubblica.

Potresti darci una definizione di Blue Economy? Quali sono i suoi obiettivi? ‘Blue Economy’ è un termine coniato da Gunter Pauli. È un modello di economia che vorrebbe la creazione di ecosistemi sostenibili a livello globale, che vadano ad imitare i sistemi naturali nella loro capacità di riutilizzare continuamente le risorse, senza produrre rifiuti né sprechi. Pauli, nel suo libro (che continua ad uscire aggiornato) ‘Blue Economy 3.0’, affronta il tema delle complesse crisi che si intersecano tra loro: sanitarie, economiche, ambientali, sociali proponendo soluzioni in grado di generare nuova occupazione, qualità ambientale, cultura di sistema. Se la green economy prevede un efficientamento dell’attuale sistema produttivo per renderlo più sostenibile, la Blue Economy propone di sviluppare un’economia con basse emissioni di carbonio e un efficiente utilizzo delle risorse.

Quanto l’innovazione tecnologica può essere rispettosa dell’ambiente? Forse dovremo analizzare caso per caso. Io credo che nella nostra quotidianità, ovunque possiamo fare a meno di delegare ad una macchina un processo, dovremo sceglierlo. Per alcuni, secondo me sarebbe necessario rallentare la corsa tecnologica, valorizzare le conoscenze tradizionali, prendere esempio dalle popolazioni indigene, strettamente connesse con la madre terra e rispettose dei suoi tempi e regole.

Per altre avremo bisogno di continuare a lavorare su innovazione e progresso, ma anche ad un utilizzo intelligente delle tecnologie. Quello che è indispensabile comprendere è cheabbiamo quasi distrutto la capacità di auto rinnovamento della terra. A livello globale, l’estrazione e la lavorazione delle risorse, sono causa della metà delle emissioni di gas serra e di oltre il 90% della perdita di biodiversità e dello stress idrico.

Per uscire da questo circolo vizioso che continua a generare crisi su crisi, dobbiamo rivoluzionare la nostra economia lineare e rimettere al centro di tutto una visione ecologista del nostro pianeta. Dissociare la crescita economica dall’uso delle risorse è una necessità alla quale non ci possiamo più sottrarre, e questo deve andare a braccetto con un uso consapevole delle risorse e delle tecnologie, perché un aumento dell’estrazione ed uso dei materiali, le loro conseguenze ambientali, potrebbe incrementare i problemi ambientali e sociali. È il paradosso del progresso: per arricchire sè stesso, l’uomo genera dei debiti economici e ambientali e a questo punto possiamo continuare a parlare di benessere e tecnologie a servizio del pianeta?

Ultimamente si sente spesso parlare di “Eco ansia”, ovvero l’impatto del cambiamento climatico nella salute mentale. Cosa ne pensi e come consigli di gestirla?

Gli impatti della crisi climatica sulla salute mentale hanno profonde implicazioni. Uno stato di attivazione continuo, accompagnato da un senso di impotenza e catastrofismo può far si che le preoccupazioni diventino eccessivamente invalidanti e si ripercuotano sulla salute mentale a lungo termine. L’eco ansia non va banalizzata, ma al contrario, dobbiamo validarla ed accogliere il nostro sentire, mettendo in pratica comportamenti pro-attivi che possano farci sentire utili alle cause che vorremmo portare avanti. Se partiamo dal presupposto che questo tipo di ansia è innescata da una minaccia reale, essa può essere intesa come un fenomeno fisiologico che ha una valenza evoluzionistica e protettiva che non deve essere curata, bensì favorita. È importante non farsi carico di situazioni che non abbiamo creato e che non abbiamo il potere di cambiare. Colpevolizzarci eccessivamente non aiuterà noi e nemmeno la causa. Dovremmo distogliere il pensiero dalle notizie catastrofiche e concentrarci su ciò che di bello dobbiamo proteggere, così da non dimenticare per cosa si sta lottando. Promuovere condotte pro-ambientali attraverso la partecipazione in attività ecologiche autonome, o promosse da associazioni e richiedere azioni politiche è necessario.

Attualmente ti trovi a Firenze, ma a breve ti sposterai verso una nuova meta. Cosa conserverai di questa “casa passeggera”? Speravo di innamorarmi di Firenze, ma non è successo. Amo le aree fuori dal centro urbano, che sembrano aver conservato dimensioni più a misura d’uomo e più tranquille. La Toscana poi è piena di realtà meravigliose. Vivere a Firenze è comodo perché sei posizionata geograficamente in un luogo strategico e puoi raggiungere varie parti d’Italia in 3 ore, ci sono tanti eventi culturali, c’è sempre più attenzione alla sostenibilità ed è sempre più vegan-friendly. Io ho vissuto in pieno centro e purtroppo d’estate è invivibile e tutto l’anno tra turisti, gli studenti di tantissime università, la quantità esorbitante di negozi di fast fashion, fast food, souvenir, la gentrification e il caos si sono sentiti tutti.

Cosa consiglieresti ad una giovane imprenditrice o imprenditore che volesse costituire un’attività responsabile, nel rispetto dell’ambiente? Direi che fare impresa dovrebbe essere proprio essere un’impresa e il focus quello di migliorare la vita delle persone, offrendo prodotti/servizi utili e che abbiano anche un impatto sociale e ambientale sui territori in cui si sviluppano. Per creare un business così oggi servono responsabilità e cultura.

Ringraziamo Alice Pomiato per contribuire a creare un pensiero critico che ci avvicini a una visione ecologica e rispettosa, ricordandoci di scegliere sempre in modo etico.

https://www.alicepomiato.it

L'autore

Gaia Carnesi

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